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Sabato 06/09/2015 il ceco Adam Ondra e la francese Hélène Janicot si sono aggiudicati il Rock Master 2015, battendo rispettivamente nel Duello il canadese Sean McColl e la francese Mathilde Becerra. Il terzo posto è stato assegnato al francese Supper Gautier e alla belga Anak Verhoeven, che hanno battuto rispettivamente gli sloveni Domen Skofic e Mina Markovic.

La maratona dei Campionati del mondo giovanili di Arco finisce con un’edizione speciale del Rock Master. Un’unica gara a cui partecipano 8 + 8 campioni delle gare di arrampicata. La gara scelta non poteva essere che il Duello Lead. Lo scontro uno contro uno su vie di alta difficoltà, parallele ed identiche, lanciata proprio qui ad Arco come “special competition” finale tra i migliori 4 classificati della gara femminile e di quella maschile del Rock Master. Una gara, il Duello, che negli anni, è diventata una delle sfide più attese e spettacolari del Master dei campioni di Arco. Tanto che anche nel 2011, in occasione dei grandi Mondiali senior disputati ad Arco, sempre il Duello ha assegnato il Rock Master di quell’anno. La formula è semplice: vince ogni singolo duello, e passa il turno, chi arriva per primo a schiacciare il pulsante di fine pista, ovvero il top. Si va avanti così fino ad arrivare alla “piccola finale” per il terzo e quarto posto ed infine alla grande finale per l’assegnazione del Rock Master 2015. Sicuramente è una delle sfide più appassionanti ed emozionanti dell’arrampicata. Non a caso il Climbing Stadium è affollato (un vero sold out) come nelle migliori occasioni.

Il primo atto, visto che quest’anno non c’è una classifica del Rock Master classico, è la presa dei tempi individuali che decideranno, giusto con il sistema del “tabellone tennistico, la griglia degli accoppiamenti delle prime sfide. Chi ottiene il primo tempo delle qualifiche si scontrerà, negli ottavi di finale, con l’ultimo e così via. A vincere la corsa maschile contro il cronometro è Gautier Supper che quindi agli ottavi si scontrerà con Ramon Julien Puigblanque che ha ottenuto l’8° tempo. Domen Skofic (2° tempo) dovrà vedersela invece con Francesco Vettorata (7°). Adam Ondra (3°) sfida Stefano Ghisolfi (6°). Mentre Sean McColl (4°) correrà contro Jakob Schubert (5°). Le qualifiche femminili sono “vinte” da Helene Janicot che sfiderà in semifinale Jenny Lavarda (8° tempo). Jessica Pilz (2° tempo) correrà contro Mina Markovic (7°). Mathilde Becerra, terza delle qualificazioni, duellerà con Dinara Fakhritdinov (6°). Infine, Jain Kim (4°) si batterà con Anak Verhoeven (5°).

Dopo il “riscaldamento” del primo turno si parte con il Duello vero. Qui si fa sul serio. Nel primo round Gautier Supper si permette di eliminare un campionissimo come Ramon Julien Puigblanque. La seconda partita è quasi da manuale: Jakob Schubert e Sean McColl corrono appaiati e fortissimo fin sotto il tetto. Poi McColl ingrana la quarta e, velocissimo, danza e piroetta sotto la grande onda bruciando Schubert. Tutto molto bello e combattuto. Domen Skofic, invece, ha quasi subito strada libera: Francesco Vettorata regola male la velocità, cade ed è fuori dalla corsa. Stessa cosa per Adam Ondra che vince per la caduta di Stefano Ghisolfi.

In gara femminile, intanto, Helene Janicot ha eliminato Jenny Lavarda. Anak Verhoeven ha la meglio sulla campionessa del mondo Jain Kim. Mentre Mina Markovic elimina Jessica Pilz per… caduta. Nell’ultimo ottavo di finale è invece Dinara Fakhritdinov che cade a tutto favore di Mathilde Becerra che così passa il turno con il minimo sforzo.

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Non c’è tempo di fermarsi: è già subito tempo di semifinali femminili. Helene Janicot passa in finale dopo una gran corsa sul filo di lana contro una mai doma Anak Verhoeven (neo campionessa del mondo Juniors che, bisogna dirlo, viene dai 9 giorni di gara dei mondiali giovanili. Per lei resta la chance della finalina per il 3° e 4° posto. L’altra finalista che resta in corsa per la vittoria del Rock Master è Mathilde Becerra che batte Mina Markovic con 3 secondi di distacco.

Nella prima semifinale maschile Gautier Supper non tiene il ritmo di uno scatenato Sean McColl e “lascia” per caduta. Ma è la seconda sfida per conquistare la finale che infiamma il pubblico. Adam Ondra e Domen Skofic danno vita ad una di quelle corse che non si dimenticano: nessuno lascia spazio all’altro, vanno a mille, ma nessuno riesce a staccare l’altro. Finché, alla fine, Ondra accelera il ritmo sotto al grande tetto e arriva al top con due secondi di vantaggio sull’avversario. Questo è il Duello!

Parte la prima finalina. In campo Anak Verhoeven e Mina Markovic, come dire il futuro e chi (come Mina) ha già vinto il Rock Master. Stasera però non c’è storia e Anak Verhoeven distacca nettamente l’avversaria. Questo è un gran giorno per la 19enne: oggi è diventata la nuova Campionessa mondiale Lead Juniors e ha conquistato il 3° posto nel Rock Master. Da incorniciare! Poi nella sfida per il 3° e 4° posto maschile Gautier Supper strappa, con un buon margine (5 secondi), il terzo posto a Domen Skofic.

Siamo già all’ultimo turno. Quello che assegnerà il 29° Rock Master. Iniziano le donne con Helene Janicot che non riesce a staccare una tenacissima Mathilde Becerra. Poi però quando sono in vista del top, proprio lì sotto al tetto, Janicot riesce a portarsi avanti. E’ lei la vincitrice del Rock Master 2015. Mathilde Becerra è seconda. Ora, e l’aspettano tutti, è arrivato il momento di Adam Ondra e Sean McColl. Lo start fa letteralmente esplodere una corsa pazzesca. Ondra e McColl a velocità supersonica non si regalano un centimetro. Presa su presa sono sempre lì appaiati. McColl trova la spinta per andare avanti di un’incollatura ma Ondra non ci sta assolutamente a perdere. Scatta e lo riprende. Poi, sotto al tetto, l’ultimo pazzesco sprint di Ondra che con uno scatto di reni arriva al top. McColl, con un ultimo balzo, è lì con lui ma… non ferma il cronometro. E’ così che, con una gara davvero molto bella ed emozionante, Adam Ondra, con il miglior tempo della gara (1’10) per la seconda volta – la prima è stata nel 2011 nell’edizione speciale assegnata appunto sempre con il Duello – vince il Rock Master!

Alpinismo invernale: il racconto di Philipp Angelo, Fabrizio della Rossa e Thomas Gianola che il 9/01/2017 hanno salito All-in (AI 6-, M7, R), una difficile nuova via di ghiaccio e misto sulla parete nord del Sas del Pegorer, Gran Vernel (Marmolada, Dolomiti).

Tutto comincia con una semplice chiamata per andare a fare qualcosa tra amici. Perché non andare a provare quella linea di ghiaccio verso il Gran Vernel? È possibile che nessuno sia mai andato a provarla sebbene quest’anno sia stata lì sotto gli occhi di tutti per più di un mese?

Grazie a qualche foto della parete fatta da Fabrizio qualche giorno prima e un sopralluogo per trovare il miglior accesso alla parete si poteva dare inizio alle danze. È così che il 9 gennaio siamo partiti insieme per aprire una nuova via sulla parete nord del Sas del Pegorer.

Partiti ancora al buio dalla macchina ci siamo recati alla base della parete. Ci siamo subito resi conto che quel che da sotto non sembrava essere tanto difficile avrebbe richiesto il nostro pieno impegno. Dopo un facile risalto e un traverso lungo un nevaio ci siamo trovati all’inizio della colata. La qualità del ghiaccio (ossía neve ghiacciata) e la compattezza della roccia hanno reso difficile e laboriosa la protezione e l’allestimento delle soste.

Dopo due tiri non troppo difficili ma assai psicologici siamo giunti al tiro più impegnativo. Per evitare di salire lungo chiazze di ghiaccio sottile e improteggibile optiamo per la variante dry: si supera una liscia placca iniziale, si obliqua verso un diedro e poi con qualche delicato aggancio su zolle d’erba si esce su un pendio di neve ghiacciata che porta alla comoda sosta.

Il prossimo tiro supera prima una delicata placchetta di ghiaccio per spostarsi poi in un diedro a sinistra che verso l’alto diventa difficilmente proteggibile. Segue il penultimo tiro: un tiro su ghiaccio molto fine e neve pressata sul quale le viti da ghiaccio hanno un valore decorativo. Alla fine di questo tiro era ora di tirar fuori le frontali. L’ultimo tiro che finisce poco sotto la fine della lingua di neve-ghiaccio è finalmente un tiro plaisir, niente di difficile, dove tutta la becca entra nella neve polistirene – ovviamente la proteggibilità lascia da desiderare..

Chiaro, si potrebbe proseguire in cima, ma l’obiettivo principale di scalare la linea di “ghiaccio” è stato raggiunto, l’ora è inoltrata e il materiale quasi finito. Così verso le 19.30 incominciamo le calate lungo la linea di salita. Arrivati alla base recuperiamo il materiale lasciato alla base e scendiamo a Canazei dove per fortuna troviamo ancora un locale dove scaldarci e goderci una meritata birretta e pizzetta.

di Fabrizio della Rossa, Philipp Angelo e Thomas Gianola

NOTE TECNICHE
La via corre sulla parete nord del Sas del Pegorer per uno sviluppo di circa 430 metri e 350 metri di dislivello. Probabilmente la linea è di difficile formazione in quanto il ghiaccio è formato dalla fusione della neve che si deposita sulla parete e che difficilmente si scioglie durante l’inverno; a meno di pioggia come è successo proprio quest’anno a fine novembre subito dopo a delle nevicate. I tiri sono generalmente appoggiati e presentano una scalata molto tecnica con lunghi tratti su roccia. La via si caratterizza per una estrema difficoltà ad accettare buone protezioni: il ghiaccio è troppo sottile per accettare viti mentre la roccia raramente offre fessure per chiodi o protezioni veloci. In apertura sono stati infissi 3 spit a mano su tre diverse soste, qualora qualche ripetitore voglia aggiungerne alcuni, gli apritori sono assolutamente solidali in quanto non sostenitori di un alpinismo eroico, ossìa kamikaze! Tenendo conto del tipo di ghiaccio presente la difficoltà è stata gradata utilizzando la scala ALPIN ICE: secondo noi AI 6- M7, R per 8 tiri complessivi. Tutte le soste di calata sono attrezzate.
Materiale per i ripetitori: friends dal 0.3 al 3 (misure camalot) una scelta di chiodi a lama e universali. Chiodi da ghiaccio pressoché inutili, eventualmente portare 3-4 viti corte. Il penultimo tiro è lungo piú di 60m. Durante la prima ascensione è stato necessario allestire una sosta improvvisata sulle picche e due viti di dubbia tenuta. Oltre alle soste sulla via è stato lasciato solo un chiodo di progressione nella prima parte del tiro chiave.

SCHEDA: All-in, Sas del Pegorer, Dolomiti

Il 17/01/2016 Cristian Candiotto e Armando Ligari hanno salito una cascata di ghiaccio in Valle della Pietra (Val Gerola), Lombardia. Non essendo a conoscenza di precedenti salite, è stata battezzata Couloir del Cimino (I/3+4, 700m). Il report di Cristian Candiotto.

Anche quest’anno la Val Gerola non si fa mancare un altro caratteristico couloir d’ambiente di grande divertimento. Ci troviamo a Gerola Alta, un comune in provincia di Sondrio, e per l’esattezza in Valle della Pietra. Un luogo che sta riservando veramente delle belle linee ghiacciate fuori da quei luoghi conosciuti come patrie dell’ice climbing.

Lasciando la macchina alla centrale dell’Enel che porta alla diga di Trona si percorre una comoda strada tra i boschi che, in poco più di 20 minuti, porta all’ingresso della valle. Qui il nostro couloir, il primo partendo dalla sinistra orografica, rivela la sua parte intermedia… ma non si espone del tutto perché la parte iniziale e finale sono nascoste. Si attraversa ora il ponte sul Bitto e, seguendo il canale formato dal torrente, ci si inoltra nel couloir… circa 30/40 minuti dalla macchina.

Questo couloir l’avevo già salito in solitaria subito dopo la salita del Couloir del Caimano, ma non essendo completo avevo preferito scendere ed aspettare che tutto il budello fosse formato così da rendere la salita più completa. Quest’anno il regalo è stato fatto e con l’amico Armando Ligari abbiamo potuto divertirci passando qualche ora nuovamente in questa bella valle.

di Cristian Candiotto

SCHEDA: Couloir del Cimino, Valle della Pietra, Val Gerola

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Alcune riflessioni di Manuel Lugli sull’apparente incapacità odierna di accettare e vivere la natura e la wilderness.

Non c’è scoperta senza curiosità. E’ il motore immobile di ogni movimento, quello che porta il cucciolo d’uomo a scendere in cantina, a esplorare il bosco dietro la casa in montagna come se fosse l’Amazzonia, a salire sugli alberi come Tarzan. Nonostante la paura o le urla dei genitori.

Il viaggio è la forma più antica di applicazione della curiosità: migliaia di anni di spostamenti dell’uomo sono avvenuti sotto la spinta di questa molla. Certo la fame, la sete, la necessità di sopravvivere sono stati motori altrettanto potenti, lo possiamo constatare anche ai nostri giorni: migliaia di migranti sfidano pericoli e leggi inutilmente protezionistiche – i flussi migratori epocali non conoscono leggi nè confini. Ma la curiosità di oltrepassare confini, barriere, frontiere è parte della storia millenaria dell’umanità.

Viviamo tempi di “protezione”, di tutela estrema: ogni momento della nostra vita viene avvolto in pellicole, in membrane di difesa da ogni cosa: elementi naturali, pericoli fisici, chimici, biologici. Traumi, infezioni, contatti ravvicinati. Ogni piccola interazione col mondo è mediata da indumenti, mezzi, rifugi, protezioni, contatti telefonici, cibernetici, visuali e uditivi.

Abbiamo perso completamente la capacità di interagire con la wilderness. Come tradurre questo termine? Selvaggità? Forse non esiste termine in italiano, ma il concetto è questo: non sappiamo più osare di vivere non protetti in qualche modo. Dalle previsioni meteo per salire in montagna, alla banale prenotazione di un hotel per non rischiare di trovarsi allo scoperto.

Riflettevo su tutte queste cose dopo un recente viaggio in Groenlandia. Fortunatamente esistono ancora terre in cui nulla è certo, sicuro, protetto. Non pretendo certo che tutti condividano il mio punto di vista, ma mai come in questa esperienza ho avuto la netta percezione dell’essere in balìa – nel senso più bello e felice del termine – della natura. Certo anche noi avevamo le nostre previsioni meteo: evitare un piteraq a 180 km all’ora può essere utile. Certo anche noi potevamo inviare alcuni messaggi di testo a casa, ogni tanto. Ma la natura intorno a noi la faceva completamente da padrona. Eravamo a decine di chilometri di distanza dal villaggio più vicino, in un circo di montagne d’incomparabile bellezza dove eravamo giunti con le nostre forze, trascinando pulke da 50 kg. Consci del fatto che in qualsiasi momento avremmo potuto incontrare orsi bianchi – in aprile fuori dal loro letargo – che avremmo dovuto attraversare con cautela i fiordi ghiacciati – quanto peso tiene il mare ghiacciato ad aprile? – che avremmo dovuto affrontare bufere violente e nevicate eccezionali, come è poi di fatto avvenuto. Nulla era certo. E se le incertezze e i rischi tipici delle montagne (maltempo, vento, valanghe) eravamo preparati ad affrontarli, perchè parte dell’andare in montagna abitualmente, certamente alcune situazioni ci erano totalmente nuove: come abituarsi ad addormentarsi col fucile a fianco del sacco a pelo e l’orecchio teso al tripwire (l’allarme anti-orsi bianchi) o a camminare sul mare ghiacciato osservandone le crepe e i sastrugi, sempre sondando il terreno davanti a noi coi bastoncini, consci che una caduta in mare con tutto l’equipaggiamento sarebbe stata di certo un problema serio, per usare un eufemismo. Eppure.

Eppure l’entusiasmo di trovarsi faccia a faccia con la natura, anche nelle sue espressioni più selvagge, prevaleva su ogni altra sensazione, su ogni paura. E non solo in me, ma in tutti i miei compagni di viaggio. Vivere la natura è sentirsi vivi ma umili, comprendere che non si è al centro dell’universo, che i sistemi non girano attorno alle nostre esigenze. Perchè la curiosità porta all’esperienza e alla comprensione anche dei propri limiti. In alcune circostanze, in questi ambienti l’uomo è un piccolo tassello, non estraneo – gli inuit convivono da millenni con una natura estrema – ma che deve adattarsi ai ritmi e agli elementi naturali.

Leggo – è cronaca di poche settimane fa – dell’uccisione “programmata” della sventurata orsa trentina, colpevole di trovarsi sul cammino di un escursionista col suo cane. Non voglio discutere sul senso di un programma di reinserimento degli animali selvaggi in una situazione fortemente antropizzata – nonostante tutto – come il Trentino, per quanto abbia una mia idea in proposito. Non siamo il Canada nè la Kamchatka e nemmeno la Slovenia. Siamo un paese di dimensioni ridicole affollato di sessanta milioni di persone; immaginare una vera wilderness in l’Italia è impossibile o quasi, per motivi territoriali ma anche e soprattutto culturali.

Ma un sistema che deve abbattere un animale selvaggio per proteggere un “ospite” umano di un ambiente “selvaggio” come un bosco è davvero un paradosso. E soprattutto mette tanta tristezza in chi conosce la vera wilderness di tanti paesi più consapevoli da questo punto di vista. Perchè il vero problema è riempirsi la bocca di belle parole sulla bellezza della natura selvaggia – tipica superficialità italica – ma trovarsi poi a non accettarne gli aspetti meno piacevoli e più imprevisti – lupi, orsi, pecore sbranate, incontri ravvicinati. E’ la curiosità, la scoperta, la natura che si scontra con la tutela estrema, ormai forzata dell’elemento umano. Meglio un ritorno alle origini? Meglio la paura dei lupi e degli orsi nei paesi – come in Groenlandia dove siamo stati accolti dall’orso bianco appena arrivati al villaggio di Kulusuk? Non so dire. Ma una maggiore consapevolezza che non siamo elemento centrale della vita su questo pianeta, farebbe un gran bene a tutti noi. A dispetto della nostra arroganza, della nostra capacità di addomesticare – e spesso distruggere – ogni cosa o essere, di alterare gli equilibri sempre a nostro favore, ignorando la bellezza della wilderness, della natura e di una buona dose di ignoto.

Lo stesso si potrebbe dire di tanto modo di viaggiare recente. Sempre più i viaggi vengono programmati in ogni dettaglio utilizzando questi deprimenti portali di prenotazione all inclusive. Voli, hotel, auto a noleggio, escursioni, ascensioni, musei, visite: nulla è lasciato al caso, all’improvvisazione, all’invenzione. E’ la noia mortale, la fine dell’immaginazione e della scoperta. Quando facevo il tour operator specializzato in trek e montagna, ho avuto richieste di gruppi che pretendevano di sapere perfino il menu dei pasti forniti durante i trekking. La risposta era sempre la stessa: avete sbagliato agenzia. Il viaggio, soprattutto in natura, è scoperta, novità, visione inaspettata. E’ anche l’imprevisto che ci costringe a condividere il tetto di un alpeggio con lo sherpa o la yurta con un pastore kirghiso. Sono i momenti di un‘esperienza vera e intensa a contatto con il mondo che ricompensano alla fine della fatica e del disagio. Perchè Into the wild non è solo il titolo di un bellissimo film, ma è una vera e propria filosofia di vita.

Manuel Lugli

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Arrampicata sportiva: le top climber Laura Rogora e Anak Verhoeven registrano due nuove prime salite femminili, con It segid narg 8c+ liberata alla Grotta dell’Arenauta a Sperlonga dalla climber romana e Ciudad de Dios pa la Enmienda a Santa Linya dalla climber belga.

Le prime salite al femminile stanno diventando sempre più frequenti, segno di quanto è in crescita e “sana” l’arrampicata sportiva. I goal arrivano da due protagoniste che già in passato hanno fatto notizia e che adesso nuovamente sono riuscite a liberare delle difficilissime nuove vie. Stiamo parlando della 16enne climber romana Laura Rogora e della 21enne belga Anak Verhoeven.

La Rogora ha “giocato in casa” si potrebbe dire, liberando dopo alcuni tentativi iniziati il mese scorso nellaGrotta dell’Arenauta a Sperlonga un concatenamento logico delle vie Invidia e Grandi gesti prima di finire su Viaggio=infinito e dare vita a It segid narg. Grado proposto 8c+, quindi leggermente più facile di Grandi gesti con la quale nel febbraio 2016 la Rogora era riuscita a salire il suo primo 9a che le aveva valso la nomination ad Arco Rock Legends 2016.

La Verhoeven invece, dopo aver ripetuto Ciudad de Dios 9a/+ a Santa Linya, ha trovato il tempo e soprattutto le forze per liberare nella stessa grotta Ciudad de Dios pa la Enmienda. Come si intuisce dal nome, anche in questo caso si tratta di una combinazione di due vie esistenti, ovvero Ciudad de Dios e La Novena Enmienda. Grado proposto, un altissimo 9a/+. Al top!
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E’ di Adam Ondra (Cze) e Janja Garnbret (Slo) la vittoria del 30° Trofeo Rock Master di Arco assegnato con la formula del Duello. Alle spalle di Ondra, gli austriaci Jakob Schubert e Max Rudigier sono rispettivamente 2° e 3°. In gara femminile Katharina Posch (Aut) è seconda, Anak Verhoeven (Bel) è terza.

Il Duello del Rock Master, la sfida sulla grande torre di destra del Climbing Stadium, è ormai uno dei must imperdibili di Arco e sicuramente una delle gare più entusiasmenti. Non a caso in questa edizione del Master dei campioni dell’arrampicata sarà proprio il Duello ad assegnare il 30° Rock Master. Il concetto è semplice. In campo scendono 9 atleti e 10 atlete. Il primo atto è una corsa individuale: le atlete con i due tempi peggiori della gara femminile e l’atleta con l’ultimo tempo della gara maschile vengono esclusi. Così ai nastri di partenza per i quarti di finale arrivano in otto. A questo punto parte la gara uno contro uno ad eliminazione diretta su due vie uguali e parallele, tanto difficili quanto da affrontare alla massima velocità possibile. Una vera corsa all’ultimo respiro per arrivare per primi all’altissimo top!

S’inizia con la gara femminile. E’ il primo giro e si va a-vista le atlete cioè non conoscono la via. E naturalmente abbinare la scalata alla velocità è ancora più difficile. Prime ad essere eliminate sono l’italiana Andrea Ebner e la francese Helene Janicot, entrambe non sono riuscite a toccare iò top e quindi a fermare il cronometro. Passano il turno invece. Katharina Posch (AUT), Christine Schranz (AUT), Mathilde Becerra ( FRA), Yuka Kobayashi (JPN), Magdalena Rock (AUT), Janja Garnbret (SLO), Mina Markovic (SLO), Anak Verhoeven (BEL). Nel primo turno maschile la corsa non sorride al russo Dmitri Fakiryanov: è suo il peggior tempo. Si qualificano così per il secondo turno: Max Rudigier (AUT), Urban Primozic (SLO), Francesco Vettorata (ITA), Adam Ondra (CZE), Jakob Schubert (AUT) e Domen Skofic (SLO).

Il primo duello dei quarti di finale si gioca in casa tra le slovene Mina Markovic e Janja Garnbret. Alla fine è la Garnbret con una gara sempre condotta in testa che riesce a spuntarla sulla tre volte vincitrice della Coppa del mondo Lead, Markovic. Poi è la volta della giapponese Yuka Kobayashi che deve vedersela con la vincitrice della Coppa del Mondo Lead di ieri, la belga Anak Verhoeven. Alla fine dopo una gara equilibrata è proprio la belga che vince e passa il turno grazie ad uno sprint sulle ultime prese. Nel duello tutto austriaco tra Katharina Posch e Christine Schranz invece vede prevalere la Posch con un discreto margine sulla compagna di nazionale. Infine, nell’ultima corsa per la semifinale, tra la francese Mathilde Becerra e l’austriaca Magdalena Rock ha la meglio la francese. Passano dunque in semifinale: Garnbret, Verhoeven, Posch e Becerra.

Per i quarti maschili scattano uno contro l’altro il campione della Repubblica Ceca Adam Ondra e il tedesco Sebastian Halenke. Ondra, in formato missile, parte sparato, Halenke cerca di stargli dietro e… cade ed è fuori dai giochi. E’ l’austriaco Max Rudigier, invece, che ha la meglio sullo sloveno Urban Primozic. Dal canto suo lo sloveno Domen Skofic batte l’italiano Francesco Vettorata con 5 secondi di vantaggio. L’ultimo a passare il turno è l’austriaco Jakob Schubert che, sempre più veloce, elimina l’italiano Stefano Ghisolfi.

Siamo alle semifinali e la corsa si fa più stringente. Janja Garnbret e Anak Verhoeven partono davvero a tutta birra e vanno quasi sincronizzate verso il top ma è la Garnbret che, con 3 secondi di vantaggio, la spunta sulla belga. Il secondo duello per finale vede invece prevalere Katharina Posch ai danni di Mathilde Becerra dopo uno sprint deciso quasi sul filo di lana. Nelle semifinali maschili, invece, un velocissimo Adam Ondra strappa con il miglior tempo della gara il passaggio in finale a Max Rudigier che, nonostante fermi il cronometro con 8 secondi di ritardo, segna il secondo miglior tempo. Bella corsa. Replicata subito dopo da un grande Jakob Schubert che batte nettamente Domen Skofic. Si annuncia una grande finale…

Nella “finalina” femminile per il 3° posto è Anak Verhoeven che con determinazione conquista il bronzo battendo in 1’19” Mathilde Becerra che è quarta in 1’24”. Ma l’attesa è ormai tutta per l’ultimo duello, quello tra Janja Garnbret e Katharina Posch. La slovena parte decisa l’austriaca le si incolla dietro. Si va di presa in presa fino al grande tetto, qui la Garnbret mette la testa avanti e spinge mentre Posch con un’ultima spinta cerca di agguantarla. Ma non c’è nulla da fare. Posch è argento. Mentre, alla sua prima partecipazione, la 17enne slovena Janja Garnbret vince il Rock Master!

In gara maschile la finale per il bronzo è vinta dall’austriaco Max Rudigier che dopo una corsa molto combattuta precede sul filo di lana lo sloveno Domen Skofic che, peraltro, non riesce nell’ultima disperata spinta a toccare il top e quindi a fermare il cronometro. Ora manca solo l’ultimo duello, forse il più atteso, quello tra i due atleti che finora hanno dimostrato di essere i più forti. La partenza è fulminante, Adam Ondra vuole vincere. Jakob Schubert non ci pensa nemmeno a farlo passare. I due vanno quasi in sincro, con un leggerissimo e quasi impalpabile vantaggio per Ondra. L’austriaco però e sempre lì fino al grande tetto ad onda rovescia. Basta un errore e si perde tutto, ma Ondra aumenta ancora la spinta si butta su e inarrestabile sprinta al top. E’ di Adam Ondra il 30° Trofeo Rock Master, è la sua terza volta sul podio più alto di Arco, sempre con il Duello di cui indubbiamente è il re.

CLASSIFICA DUELLO
Femminile

1 Janja Garnbret (SLO)
2 Katharina Posch (AUT)
3 Anak Verhoeven (BEL)
4 Mathilde Becerra ( FRA)
5 Yuka Kobayashi (JPN)
5 Christine Schranz (AUT)
6 Mina Markovic (SLO)
8 Magdalena Rock (AUT)
9 Helene Janicot (FRA)
10 Andrea Ebner (ITA)

Maschile
1 Adam Ondra (CZE)
2 Jakob Schubert (AUT)
3 Max Rudigier (AUT)
4 Domen Skofic (SLO)
5 Urban Primozic (SLO)
6 Stefano Ghisolfi (ITA)
7 Francesco Vettorata (ITA)
8 Sebastian Halenke (GER)
9 Dmitri Fakiryanov (RUS)

>> INFO, FOTO & VIDEO:www.rockmasterfestival.com

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Riceviamo dal Soccorso Alpino e Speleologico Veneto e volentieri pubblichiamo il racconto, di un incidente in montagna e del relativo soccorso, che è stato raccolto ieri sera in occasione del 10 anniversario dall’accaduto. Una storia raccontata dagli stessi protagonisti (salvato e salvatori) che, a distanza di tanto tempo, forse può servire più di mille appelli sul soccorso, sugli incidenti in montagna e anche su ciò che può succedere e sugli errori che si commettono andando per monti.

Sappada (BL), 09/09/2016. Dopo il suo incidente in montagna, Gianni è tornato ogni anno a Sappada per passare qualche ora con gli uomini che allora lo trassero in salvo ritrovandolo gravemente ferito in un canale roccioso, ormai prossimo il buio. Era il 4 settembre del 2006 e ieri sera, nel decennnale, Gianni Deserti – 73 anni, originario di Ferrara, bellunese d’adozione, residente a Ravenna – ha ricordato quelle ore, circondato dal Soccorso alpino di Sappada. Dagli stessi soccorritori che ostinatamente lo cercarono quel giorno e dai giovani che sono entrati a rafforzare la Stazione in seguito. Gli occhi col sorriso di chi ha vissuto un’esperienza che lo ha cambiato, camminatore instancabile, Gianni ha iniziato così: “Ero partito la mattina alle 9 da Sappada, avevo pensato a un certo percorso: raggiungere il Rifugio De Gasperi (dal sentiero 316 Corbellini, ora chiuso perché franato) e rientro da un itinerario diverso, dalla Forca dell’Alpino, passando dal Bivacco Damiana, nel Gruppo del Clap. La giornata era stupenda, sole caldo, atmosfera tersa. Sono arrivato sudato al Rifugio De Gasperi, mi sono tolto i vestiti per metterli ad asciugare, avevo il costume, e ho mangiato qualcosa sul prato: ‘pan e gaban’, come dice un vecchio amico carnico. Mi ricordo che è arrivato un pulmino con 7-8 ragazzi guidato da un signore. Erano tutti suoi figli. Quando ho finito, verso l’una e mezza, mi sono rivestito. Indossavo pantaloncini corti con grandi tasconi laterali. Di solito il cellulare lo tenevo a destra, quel giorno non mi sono accorto e l’ho infilato nella tasca opposta. Questo gesto mi ha salvato la vita: sono caduto sul lato destro, lo avrei di sicuro sbriciolato. Il gestore del Rifugio mi chiese il numero di telefono e mi diede il suo. Poi mi sono avviato. Ho superato un lungo ghiaione, i segnali sul sentiero non erano tanti. Mi sono distratto, comparivano dei bolli rossi distanziati. Arrivato alla forcella, la scritta era parzialmente cancellata, non sono riuscito a leggere e sono andato a sinistra”.

Un bivio, una scelta errata, anziché procedere verso Forcella dell’Alpino, Gianni s’incamminò verso Forcella Clap Grande. “Una gola stretta. Nella peggiore delle ipotesi, pensai, torno indietro. Ho visto il bosco in fondo, due persone che scendevano con le corde, mi hanno incoraggiato a proseguire. Mi sono ritrovato sopra un salto tra due pareti di roccia, mi sembravano cementate, con appigli. Mi ha spinto la troppa sicurezza di me, l’arroganza del ‘ce la faccio’. Ho buttato giù il bastone, legato bene lo zaino e sono sceso. Non credo di avere fatto più di due metri. La sporgenza a cui mi tenevo si è staccata. Non volevo cadere di schiena. Ho puntato le ginocchia e mi sono lasciato scivolare, lo zaino mi ha protetto in parte. Sono arrivato al suolo di fianco. D’istinto ho tenuto su la testa. Solo che non c’erano sassi arrotondati sotto. Nella botta non ho provato dolore, però ho sentito il rumore delle ossa rotte. Non riuscivo più a respirare. Vuoi alzarti in piedi e non ce la fai”. Nell’incavo di pietre aguzze in cui era finito, Gianni si era rotto 4 costole, che gli avevano forato la pleura e un polmone, e si era fratturato la cresta iliaca destra. “Sulla diagnosi c’era scritto ‘esplosione della cresta iliaca’. Ho cercato di calmarmi, mi sono concentrato. Se ti spaventi, non riesci più a respirare. Ho iniziato a strisciare sui sassi. Se mi alzo, pensavo, e c’è qualcosa di rotto, spacco tutto. Mi sono tranquillizzato, ho riflettuto: dovevo chiamare. Ho messo la mano nella tasca e non ho trovato il telefono, mi si è gelato il sangue. Poi tastando i pantaloncini l’ho rinvenuto nell’altra tasca e ho iniziato a chiamare il 118”.

Alla voce di Gianni si unisce quella di Gianpaolo, allora vicecapostazione, e di Christan, capostazione oggi, la squadra che riuscì a individuarlo: “La sua caduta probabilmente è avvenuta attorno alle 14.30. Lì non c’è alcuna copertura telefonica. Gianni è riuscito a prendere miracolosamente la linea quasi alle 17, ancora oggi non sappiamo come abbia fatto”. Gianni continuava a comporre le tre cifre: “Alla fine si è attivata la comunicazione e dalla centrale operativa mi ha risposto Emma, le ho detto che ero partito dal De Gasperi e presumevo di essere sul sentiero. Poi la linea è caduta e non sono più riuscito a parlare”. Gianpaolo e i suoi uomini vennero attivati subito, l’elicottero del Suem di Pieve di Cadore imbarcò Gianmarco, uno dei soccorritori, per effettuare una prima ricognizione: “In quelle poche parole Gianni aveva detto che era partito dal De Gasperi, insisteva nel dire che era sul Passo dell’Alpino. Noi dovevamo pensare a ogni ipotesi, sia che potesse trovarsi sulla Forca dell’Alpino, che sul Passo del Mulo, dalla parte opposta. Con l’elicottero abbiamo sorvolato anche il punto in cui era caduto, e lo avremmo visto fosse stato ancora lì, ma era riuscito a trascinarsi 200 metri più in basso, in un tratto infossato”.

Dopo la prima rotazione senza esito, l’eliambulanza ne compie una seconda con Gianpaolo a bordo, che poi sbarca in quota per avviare la ricerca a piedi lungo i valloni. Poco dopo l’A 109 K2 trasporta in quota anche Nino e Christian. Nino scende verso il Bivacco Damiana, Christian si unisce a Gianpaolo sulla Forca dell’Alpino. Il pomeriggio volge al termine, l’elicottero deve andare a fare carburante. Forse si riuscirà ancora a elitrasportare altri soccorritori, in ogni caso l’intera Stazione è già pronta a muoversi a piedi. Riprende Gianni: “Prima l’ho sentito, poi ho visto l’elicottero. Con la parte in forma ho messo la giacca a vento sul bastone per sventolarla. Oltretutto ero vestito di scuro: bisogna andare in montagna con abiti rossi o arancioni. Ho provato 2-3 volte, ma non c’era più. Con pantaloncini corti e tshirt è arrivato il freddo. Passava il tempo, il sole scendeva ed è cominciato lo sconforto. Mi cadevano le lacrime e pensavo: ho fatto una grande cavolata e la pago con la vita. Ho salutato mentalmente i miei cari. Il mio ciclo di vita finiva, ero consapevole che non avrei passato la notte: ogni volta che mettevo la mano sul bacino la ritraevo bagnata di sangue. Finché all’imbrunire sono riuscito a prendere la linea di nuovo. Ho saputo dopo che le onde radio si propagano meglio di sera. Mi ha risposto ancora Emma, è stata estremamente esperta e umana nell’incoraggiarmi. Contemporaneamente era in contatto con il pilota: ‘Insistete, ce l’ho in linea adesso, dai che lo trovate!’”.

Sono quasi le 19 quando Gianni per la seconda volta parla con il 118. Lui non lo sa, ma Gianpaolo e Christian, dopo essere passati sul versante friulano, hanno salito la Forcella di Clap Grande, sono scesi dietro e stanno verificando il canale in cui si trova lui, il Cadin di Elbel: “Stava diventando buio, le squadre erano pronte a partire, noi percorrevamo a piedi i valloni, l’elicottero era a fare carburante. Continuavamo ad avere problemi con le radio, quando scendendo, gli siamo arrivati sopra. Abbiamo subito dato conferma che l’avevamo trovato: è qui! L’elicottero, che stava tornando per l’ultima ricognizione, ha stentato a vederci nel canale chiuso. Gianni è stato imbarellato rapidamente e verricellato. Marco dall’elicottero ci ha detto ‘torniamo a prendervi’. Noi gli abbiamo risposto ‘non ci pensate nemmeno, scendiamo a piedi’. Sul prato a valle, i ragazzi hanno creato una piazzola illuminandola con i fari del fuoristrada e delle frontali per agevolare l’atterraggio”. Caricato a bordo, Gianni è stato trasportato a Pieve di Cadore. Ricorda quei momenti: “Era il tramonto. Quando li ho visti arrivare tremavo talmente da perdere ogni forza. Non dimenticherò mai quando mi hanno coperto con il telo termico, era come se avessero acceso un fornello. Mi hanno ridato la vita. Più tardi Emma è passata a trovarmi in ospedale, ho riconosciuto immediatamente la sua voce. Ho passato 16 giorni a Pieve e 15 a Ravenna, alla clinica San Francesco. Finché ho vita attiva e capacità di guida, anche solo per una settimana continuerò a venire a Sappada. Verrò sempre per questi ragazzi qui”.

Soccorso Alpino e Speleologico Veneto
Michela Canova

Terza giornata del Melloblocco 2016: in Val Masino continua il gioco della libera arrampicata sempre all’insegna della bellezza e del Karma del Mello. A partecipare al più grande raduno internazionale del boulder sono già in 2.500!

Cose da Melloblocco. La voce girava già da ieri: diceva che stamattina il MelloYoga si sarebbe trasferito in cima al Sasso Remenno per uno speciale saluto al sole. Non c’era nessun annuncio ufficiale, girava solo un passaparola. D’altra parte qui funziona così: la libera arrampicata scatena le fantasie più improbabili, e anche meno prevedibili. La domanda era: quanti si sarebbero presentati dopo la festa notturna di venerdì ai piedi del signore di pietra della Valle? E poi era vero? Fatto sta che alla base del gigante stamattina si sono ritrovati in tanti, anzi tantissimi. Ad attenderli dopo la scalata c’era il giardino (incantato) di vetta. Di lì si domina la valle e tutto è un po’ sospeso e magico… Così le sessioni yoga si sono sdoppiate in due turni per un indimenticabile saluto al sole.

Indimenticabile questa mattina è stato anche il risveglio, o se volete il saluto al sole, del MelloBaby. Erano almeno 50 i bambini e le bambine di ogni taglia che si sono presentati all’appuntamento sul prato del Centro Polifunzionale della montagna. Ad attenderli una piccola (e dotta) lezione di “igiene orale” su come si usa lo spazzolino. Poi tutti via ad arrampicare alla Collinetta dove i loro maestri nonché guide alpine, Gianluca Maspes e Davide Spini, hanno iniziato da come si usa appunto lo spazzolino per pulire gli appigli per poi “scatenare” i giochi verticali dei più piccoli melloblocchisti. Che a dire il vero non hanno per nulla sfigurato, anzi hanno dimostrato che a saper giocare e divertirsi sono dei campioni. Stesso discorso per i ragazzini e le ragazzine del turno pomeridiano che (più sfortunati) questa mattina erano a scuola. Per loro uno speciale dopo scuola che sembrano aver accettato con dedizione, entusiasmo e, da bravi melloblocchisti, tanta… arrampicata.

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A proposito di melloblocchisti. Per tutta la mattina la coda delle iscrizioni non si è mai sciolta. Alla fine oggi ne sono arrivati altri mille, portando gli iscritti a 2.500. Intanto l’atmosfera, si potrebbe dire anche il Karma, del Mello 2016 continua ad essere particolare. E’ difficile descriverlo bisognerebbe esserci. Sarà forse per il sole o sarà perché questo è il Melloblocco, ma sembra proprio che quest’anno regni la… tranquillità e un ritmo di rilassato, puro e semplice divertimento. Anche, e soprattutto, nell’arrampicata. Su tutti i boulder, dovunque si andasse, dovunque si girasse l’occhio, c’era qualcuno che arrampicava. Tutto secondo il libero mantra del Mello.

Un inafferrabile spirito, forse ispirato dalla bellezza di questa Valle, che sembra aver conquistato tutti. Anche i campioni, quelli che sono impegnati a risolvere i magnifici 12+12 blocchi a montepremi. Qualcuno dei nuovi top boulder sembra resistere, qualcuno è già stato conquistato. domani – alla chiusura dei giochi – ne sapremo di più. Nel frattempo, sempre a proposito di campioni dell’arrampicata, tra i tanti piacevoli e in parte inattesi arrivi in Valle c’è stato quello del mitico Cristian Brenna (e famiglia). Del maestro d’arrampicata Stefano Alippi. Della campionessa slovena Maja Vidmar. Mentre, direttamente da Magic Wood (Svizzera) dove si è preso la soddisfazione di un gran top da 8C, è arrivato anche il magico Gabriele Moroni. E forse, anche questo loro voler esserci, ha a che fare con il Karma del Mello.

Stasera il festone del sabato si scatenerà con la musica dei Circo abusivo, anche loro ormai parte del Mello.

diVinicio Stefanello

– TOP BLOCCHI MONTEPREMIO DAY 3

NEWS MELLOBLOCCO 2016
07/05/2016 – Melloblocco spirit images. By Im Duck Yong
06/05/2016 – Melloblocco 2016 – day 2. L’arrampicata social
05/05/2016 – Melloblocco 2016 – day 1. Il Mello inaspettato
05/05/2016 – Melloblocco 2016 start: sole e boulder per tutti
03/05/2016 – Melloblocco 2016: mi sono perso

Il climber sloveno Jernej Kruder ha effettuato la probabile prima ripetizione di Pontax, una via di arrampicata deep water solo gradata 8c e liberata nel 2005 da Chris Sharma a Es Pontas, Maiorca, Spagna.

La scorsa settimana il fortissimo ed eccentrico climber sloveno Jernej Kruder si è recato sull’isola spagnola di Maiorca per toccare con mano la specialità che sta crescendo a dismisura in popolarità: il deep water solo, detto anche Psicobloc, ovvero l’arrampicata senza corda sopra l’acqua. E subito si è reso conto che questo genere d’arrampicata fa proprio per lui.

Nel suo primo giorno sull’isola infatti, Kruder ha salito a-vista Weather man, la classica via di 8a+ liberata da Chris Sharma, poi ha deciso di provare subito l’obiettivo principale del viaggio, la famosa Es Pontas, liberata da Sharma nel 2006. Irripetuta e con difficoltà stimate attorno al 9a/9a+, questa via vanta un passaggio chiave sullo spigolo finale, raggiunto dopo un enorme lancio a 10m dall’acqua.

Kruder ha sorpreso se stesso riuscendo quasi al primo tentativo a tenere il lancio poi, dopo circa 10 tentativi distribuiti su 4 giorni, ha effettuato la seconda salita di Pontax 8c. Questa, invece di seguire lo spigolo di Es Pontas dopo il grande lancio, sale direttamente in cima ed era stata liberata da Sharma l’anno prima di Es Pontas.

Nel 2014 Kruder aveva vinto l’argento nel Campionato del Mondo Boulder e ora ha unito le forze con il tedesco Jan Hoyer che, da parte sua, aveva vinto la medaglia di bronzo nella stessa gara. I due stanno attualmente provando Es Pontas insieme; mentre Kruder sta provando la via dal basso (la sezione dal lancio fino allo spigolo è troppo strapiombante da provare con la corda dall’alto), Hojer ha già salito in fila tutta la parte alta dello spigolo fino in cima all’arco.

“Ci sono alcuni movimenti difficili da fare con la corda”, ci ha raccontato Kruder “Non siamo così bravi da fare delle lolotte, ma presto troveremo delle soluzioni per raggiungere lo spigolo: anche se non è cosi difficile, in continuità diventa la sezione chiave, perché entra in gioco la resistenza “. Attualmente il mare è mosso e i due sono costretti ad aspettare, ma entrambi rimarranno fino a fine mese, quindi le loro aspettative continuane ad essere alte.

Il 20enne Kruder eccelle sia nel boulder (The story of two worlds, 8C, Cresciano), sia in arrampicata sportiva (Massacrate 9a+, Golobove pečine) sia sulle vie di più tiri (Hattori Hanzō, 8b+,Titlis, Engelberg, Svizzera). Ha riassunto questa esperienza raccontandoci che “è la prima volta che faccio Psicobloc e sì, mi trovo piuttosto a mio agio ☺”
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02/10/2006 – Chris Sharma cavalva l’onda a Maiorca
Chris Sharma ha salito il suo “Deep Water Soloing” a Maiorca (Spa), comparandola come difficoltà alla sua Realization a Ceuse (Fra).

Il 18 novembre 2017 l’alpinista neozelandese Ben Dare ha aperto in solitaria Remembrance, una nuova via di 550 metri sulla parete sud dell’ Aoraki / Mt Cook.

A nemmeno un mese dalla storica prima discesa in sci della parete sudest del Monte Cook, o meglio, dell’Aoraki come viene chiamato da sempre dai Maori, segnaliamo ora l’apertura di una nuova via sulla stessa montagna. Si stratta di una linea sulla parete sud, salita in solitaria il 18 novembre da Ben Dare con difficoltà stimate attorno a Grade 6 (M5, WI4) V, 550m.

Dopo aver salito il ghiacciaio Noeline, Dare ha superato la terminale e ha salito una linea di ghiaccio fino ad una fascia di arrampicata di misto poco sotto la cresta sud. Arrivato in cresta, l’alpinista neozelandese non è salito in cima ma è sceso lungo la cresta sud. La nuova via si chiama Remembrance ed è dedicata a Conor Smith, morto nell’aprile del 2017 a causa di un incidente in montagna insieme a Sarwan Chand, lo stesso alpinista con il quale Dare aveva tentato la linea l’anno scorso.

La nuova via arriva dopo la prima salita, sempre da parte di Dare e sempre in solitaria, della parete sud del Peak 2472m, la montagna posta sotto la spalla ovest della più famosa Mt Huxley Peak. La via Phoenix è stata aperta il 28 ottobre 2017, affronta difficoltà fino a 5+ (M4, AI4) nei suoi 500m e sale la “l’imponente parete sud” seguendo un “evidente diedro che conduce lungo l’intera parete.”

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